12/01/12

Cosmogonia di un ennesimo daydream

Mi piacerebbe insegnare recitazione. Teatro.
Entrerei nell'aula ad anfiteatro, poserei la mia copia di The Awakening su un tavolo e direi qualcosa come: "il mondo è rappresentazione, diceva Shopenhauer, ed il teatro, in quanto rappresentazione della vita, è vita". Poi mi schiarirei la voce, osserverei le facce stupite ed affascinate degli sfortunati avventori del mio corso e direi qualcosa di sagace, da vero scienziato della parola quale sono, come: "il teatro è un simbolo. Attraverso dei simboli noi diciamo la realtà, le emozioni, dei fatti. Come faccio a dire il dolore? Piango. Il pianto, sul palcoscenico, quando diventa fatto scenico, è dolore, o rabbia, o gioia". Ad un certo punto comincerei a gesticolare, dopo essermi tolta la sciarpa zebrata ed il cappotto nero di panno. Direi: "l'abilità dell'attore sta nell'usare il segno".
Qui prenderei fiato. Si solleverà un chiacchiericcio, ma mi vedrebbero sfilarmi le scarpe, camminare sullo stage a piedi nudi. "Dal momento in cui salite sul palco, il palco è il mondo. Ricordate: un attore non dirà mai: mi pesa il culo. Un attore crollerà al centro del palco, sbuffando, e si stenderà così". E qui mi distenderei, supina, sul palco. Qualcuno riderebbe. Di sicuro io lo farei.
"Un vero attore" annuncerei, dopo qualche istante di silenzio, restando distesa sul palcoscenico, "è qualcuno che sappia fingere di non saper recitare. È facile recitare a memoria un soliloquio dall'Hamlet, anche i bambini sanno piangere a comando, chiunque può fingersi un ottimo balbuziente, ma chi di voi saprebbe fingere di non saper recitare?". Qui c'è sempre il ragazzo sveglio che alza la mano, ma io riderei soltanto. Continuerei, dicendo: "quando un attore è sul palcoscenico o sul set, smette di avere un nome, un background, una personalità: diventa il character, vive la sua storia, agisce coi suoi gesti. Rappresenta un altro in un processo segnico di una complessità disarmante. Io è un altro diceva Rimbaud. In questo caso questa massima è presa praticamente alla lettera perché, nell'attimo in cui io sono un altro, smetto di essere me".
"Il lavoro dell'attore" direi ad un certo punto, sedendomi sullo stage, con le gambe a penzolare nel vuoto, "è un po' come quello dell'ostetrica. Ricordate la maieutica socratica? Quel bontempone di Socrate, ci dice Platone, andava in giro a dire alle persone per bene come 'sto povero Teeteto cose come 'sei incinto! Stai per partorire un'idea'. Ebbene, il lavoro dell'attore non è molto dissimile da quello di Socrate, dell'ostetrica: l'attore dà alla luce. Crea". A questo punto avrei l'attenzione dell'uditorio. Mi metterei a ridere e "avrei potuto metterla diversamente" ammetterei, con l'aria di una che la sa lunga su questo tipo di cose. "Avrei potuto dire: l'attore è il simbolo, il teatro è il significante e la vita è il significato".
Qui poi mi alzerei in piedi e tutti solleverebbero il mento per guardarmi. Prima di congedarli, aggiungerei solo: "mi piacerebbe insegnare recitazione. Perché mi ostino a volermi laureare in semiotica?".